Patronato. Anche il “Collaboratore” ha un ruolo.

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Consiglio di Stato: Il Collaboratore volontario può accedere alle banche dati.

Con sentenza n. 2798, depositata il 23 giugno 2016, il Consiglio di Stato, decidendo su un ricorso relativamente al divieto di accesso alle banche previdenziali dei collaboratori volontari dei patronati così come affermato nel “Vademecum per lo svolgimento dell’attività di vigilanza sugli istituti di patronato e di assistenza sociale” del 7 agosto 2015, ha stabilito che “negare ai collaboratori volontari l’accesso alle banche dati degli Enti previdenziali, vorrebbe dire, in concreto, impedire ai collaboratori medesimi di espletare gran parte dei compiti loro attribuiti” dall’art. 6 della legge n. 152/2001.

Ciò che il Dicastero del Lavoro ha paventato circa l’accesso a dati sensibili senza garanzia, e’ un rischio che, secondo il massimo organo della Giustizia Amministrativa può essere evitato attraverso “strumenti di conservazione e di tutela della riservatezza dei dati”. Ogni uso improprio delle banche dati può essere sanzionato dagli organi ministeriali di vigilanza. Il Consiglio di Stato e’ intervenuto sull’argomento dopo due pronunce del TAR di Trieste (sentenza n. 523 del 24 novembre 2015) e del TAR del Lazio n. 23769/2015.

 

 

Fonte: Consiglio di Stato

 

 


 

N. 00683/2016 REG.RIC.

N. 02798/2016REG.PROV.COLL.

N. 00683/2016 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm. sul ricorso numero di registro generale 683 del 2016 proposto dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. LAZIO -ROMA -SEZIONE III BIS, n. 13764/2015, resa tra le parti, concernente “vademecum per lo svolgimento dell’attività di vigilanza sugli istituti di patronato e di assistenza sociale nella parte in cui non consente al collaboratore del patronato di accedere alle banche dati degli enti previdenziali”;

 

Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati;

Vista la memoria di costituzione in giudizio del Patronato INCA CGIL e del Patronato ITAL UIL;

Visto l’atto di intervento “ad adiuvandum” ex art. 97 del cod. proc. amm. dei patronati EPACA, EPASA –ITACO, 50 E PIU’ ENASCO, ENAPA e INAPA, con i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del 21 aprile 2016 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Bruno Dettori per il Ministero appellante, Mario Sanino per gli appellati e Raffaele Bifulco per gli intervenienti;

Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

 

1.Gli istituti di patronato Inca Cgil e Ital Uil hanno impugnato davanti al Tar del Lazio il provvedimento del Ministero del Lavoro del 7.8.2015 avente a oggetto il “Vademecum per lo svolgimento della attività di vigilanza sugli Istituti di patronato e di assistenza sociale”, nella parte in cui non consente al collaboratore volontario del patronato di accedere alle banche dati degli enti previdenziali.

Con la sentenza in epigrafe il giudice di primo grado, dopo avere rilevato in via preliminare che con la sentenza n. 523 del 2015 il Tar del Friuli –Venezia Giulia aveva definito, accogliendolo, un ricorso che riguardava “una questione assolutamente analoga a quella in trattazione nel presente giudizio” (la questione decisa dal Tar di Trieste concerneva la conformità, o meno, alla normativa, della circostanza che i collaboratori volontari dell’istituto di patronato ricorrente avessero il possesso delle password di accesso ai sistemi informatici di INPS e INPDAP), ha trascritto argomentazioni e conclusioni della citata sentenza n. 523 del 2015, condividendole e recependole e, per l’effetto, ha annullato l’atto impugnato “siccome affetto dalla dedotta illegittimità”, compensando le spese del giudizio tra le parti trattandosi di questione nuova.

In particolare la sentenza:

– ha osservato che, ferma la distinzione tra operatore dipendente dall’istituto di patronato e collaboratore volontario, tale per cui solamente il primo è responsabile anche verso l’esterno e firma gli atti del patronato stesso, mentre il collaboratore svolge solo compiti di informazione, istruzione, raccolta e consegna delle pratiche, la disciplina sui patronati e, in particolare, l’art. 6 della l. n. 152 del 2010, va interpretata alla luce del d. lgs n. 82 del 2005 sulla digitalizzazione dell’Amministrazione e della l. n. 122 del 2010 sull’uso esclusivo dei sistemi telematici nei rapporti con la P. A. , vale a dire “nell’ottica del nuovo quadro normativo”;

– ha statuito che l’attività di “istruzione delle pratiche” attribuita ai collaboratori volontari “implica per sua stessa natura l’accesso alle banche dati pubbliche, il che equivale nell’attuale situazione all’accesso ai documenti cartacei nel precedente sistema. Fermo restando quindi che spetta solo all’operatore la stesura e la validazione finale di ogni tipo di documento, oltre che la responsabilità dei suoi contenuti, non si vede per quale ragione un collaboratore volontario non possa accedere alle banche dati per acquisire informazioni e dati, istruire la pratica e predisporre un testo che naturalmente non può che essere valorizzato e utilizzato dall’operato responsabile;

– ha specificato che quanto poi alla consegna del documento finale redato dal patronato essa può avvenire ad opera del collaboratore anche utilizzando la via informatica, naturalmente anche in tal caso sotto la responsabilità dell’operatore cui va imputata la redazione del documento stesso. Attualizzando e “traducendo” il testo della legge numero 152 del 2001 nell’ambito della digitalizzazione della pubblica amministrazione, “l’accesso alle banche dati da parte dei collaboratori risulta non solo facoltativo ma necessitato” al fine di rendere effettiva la collaborazione con gli operatori nell’ambito dell’istruzione delle pratiche;

– ha soggiunto che eventuali istruzioni interne contrarie alla ricostruzione normativa fornita sono irrilevanti, tenuto conto dell’usuale canone di gerarchia delle fonti, e che ogni uso improprio delle banche dati sarà sanzionato sia in via diretta dal patronato e sia dal Ministero in sede di controllo.

2.Ministero, che ha proposto appello con istanza di sospensiva. Dopo un inquadramento normativo generale sugli enti di patronato, e dopo avere evidenziato che il Vademecum “segnala che (ai collaboratori che operino in modo volontario e gratuito) non può essere consentito l’accesso alle banche dati degli Enti previdenziali, di esclusiva competenza degli operatori di Patronato. I compiti a essi attribuiti sono quelli tassativamente individuati nell’art. 6 della legge n. 152/2001 e contenuti nel modello di convenzione approvato dal Ministero del Lavoro e allegato alla circolare n. 10/2010…ciò in quanto una confusione tra i due ruoli porrebbe problemi di compatibilità con la normativa sulla tutela della riservatezza dei dati personali, nonché sulla diversa responsabilità dell’operatore di Patronato e del collaboratore volontario”, l’appellante:

2.1. in primo luogo deduce l’inammissibilità del ricorso introduttivo di primo grado, essendo stato impugnato un atto interno non lesivo di alcuna posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo;

2.2. in secondo luogo rileva che la sentenza sarebbe incorsa in ultrapetizione in quanto il Tar avrebbe annullato l’intero vademecum, quantunque nel ricorso introduttivo le parti ricorrenti avessero chiesto al giudice di annullare il provvedimento ministeriale del 7 agosto 2015 esclusivamente “nella parte in cui non consente al collaboratore del patronato di accedere alle banche dati degli enti previdenziali”;

2.3. con il terzo motivo di appello la sentenza è contestata nel merito per avere il Tar del Lazio ritenuto che la questione risolta dal Tar Friuli Venezia Giulia con la sentenza n. 523 del 2015 fosse analoga a quella sottoposta al giudizio del primo Tar;

2.4. infine il Ministero rimarca che la sentenza di primo grado avrebbe errato nel ritenere possibile e legittimo l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali anche da parte dei collaboratori volontari dato che così facendo si determina una sostanziale parificazione di ruoli tra collaboratori volontari e operatori professionali dei patronati, e ciò in violazione dell’art. 17 del d. lgs. n. 152 del 2001. La parificazione suddetta è sempre stata negata dalla normativa in materia, diretta a ribadire la distinzione e la separazione di compiti tra l’operatore dipendente dall’istituto di patronato e il collaboratore volontario. Del resto, in base a quanto dispone il citato art. 6, ai collaboratori volontari non possono essere attribuiti poteri di rappresentanza degli assistiti. Il mandato di assistenza conferito all’istituto di patronato deve essere firmato dal mandante e dall’operatore autorizzato a riceverlo dall’istituto di patronato. L’attribuzione, ai collaboratori volontari, delle credenziali di accesso alle banche dati degli enti previdenziali conferirebbe la possibilità, ai collaboratori medesimi, di compiere, per conto dell’utente, tutte le attività previste, senza limiti, pur in assenza della qualifica e della preparazione professionale proprie degli operatori. Inoltre, la ricostruzione interpretativa seguita in sentenza comporta il rischio di favorire la costituzione di fatto di un vincolo sinallagmatico del collaboratore volontario con il patronato, e ciò in violazione dell’art. 6 della l. n. 152 del 2001 che prevede il carattere solo occasionale della collaborazione volontaria e gratuita.

3. Il patronato EPACA e gli altri meglio specificati in epigrafe hanno svolto intervento “ad adiuvandum” della posizione del Ministero, premettendo di essersi sempre attenuti alla lettera della legge e della prassi amministrativa e di avere tenuto ben distinta la figura dell’operatore da quella del collaboratore volontario.

Nell’atto di intervento si è osservato tra l’altro che la sentenza di primo grado, consentendo al patronato di svolgere attività di assistenza mediante personale privo di un’adeguata formazione, responsabilità e controllo, finisce con l’attribuire poteri di rappresentanza ai collaboratori volontari, con ricadute pesanti sulla qualità del servizio reso dai patronati.

INCA CGIL e ITAL UIL si sono costituiti per resistere, concludendo per il rigetto dell’appello che nella camera di consiglio del 21 aprile 2016, sentite le parti, è stato trattenuto in decisione.

4. L’appello è infondato e va respinto. La sentenza va confermata.

4.1. In rito (v. sopra, punti 2.1. e 2.2.), in primo luogo, diversamente da quanto afferma l’Amministrazione appellante, il provvedimento ministeriale in epigrafe, nella parte in cui non consente ai collaboratori volontari di patronato di ottenere la password per poter accedere alle banche dati degli enti previdenziali, è lesivo in via immediata e diretta della posizione giuridica degli istituti di patronato ricorrenti e odierni appellati, posto che il vademecum stesso non si limita a chiarire il significato di norme destinate a essere applicate dagli uffici territoriali del lavoro ma, come si dirà più avanti, al p. 4.2. , mira a innovare la normativa “comprimendo il ruolo” dei collaboratori volontari previsti dall’art. 6 della l. n. 152 del 2001.

Il carattere lesivo della indicazione del Vademecum è strettamente correlato alla diminuzione della funzione effettiva di collaborazione nell’attività di patronato, con riguardo, in particolare, ai compiti di istruzione delle pratiche.

Il Vademecum ha dunque un contenuto provvedimentale lesivo della situazione giuridica fatta valere dagli istituti di patronato.

Di qui l’interesse alla impugnazione del Vademecum “in parte qua”.

In secondo luogo, il Tar non è incorso in nessuna “ultrapetizione”.

Poiché i motivi di censura “segnano” l’ambito del potere giurisdizionale di annullamento, dato che nel ricorso di primo grado gli istituti di patronato –come gli stessi appellati riconoscono- avevano domandato al giudice di annullare il provvedimento ministeriale del 7 agosto 2015 nella sola parte in cui non è consentito al collaboratore volontario di accedere alle banche dati degli enti previdenziali, deducendo una limitazione illegittima dei compiti del collaboratore medesimo, ne consegue che l’accoglimento e l’annullamento giurisdizionali, qui confermati, si riferiscono e, ove occorra, per esigenze di chiarezza, vanno circoscritti a quella prescrizione del Vademecum con la quale si vieta ai collaboratori volontari di accedere alle banche dati e si afferma che l’accesso anzidetto rientra nella competenza esclusiva degli operatori di patronato.

4.2. Quanto al merito (v. sopra, punti 2.3. e 2.4.), occorre rilevare preliminarmente che la controversia dinanzi al Tar di Trieste, pur traendo origine da una istanza di rettifica, inutilmente avanzata al Ministero, da un istituto di patronato, avverso un verbale di accertamento ispettivo, nella parte in cui tale verbale aveva disconosciuto le convenzioni di alcuni collaboratori volontari trovati in possesso di password per accedere ai servizi informatici al fine di raccogliere le pratiche e di rilevare i dati da consegnare poi all’operatore di patronato; la causa riguardava, effettivamente, una questione “assolutamente analoga a quella in trattazione” nel giudizio dinanzi al Tar del Lazio. Di qui la correttezza del richiamo, operato nella sentenza impugnata, alle argomentazioni e alle conclusioni della decisione del Tar Friuli –Venezia Giulia.

Sempre in via preliminare pare il caso di rammentare che l’art. 6 della citata l. n. 152 del 2001, recante la nuova “disciplina per gli istituti di patronato ed assistenza sociale”, regolamenta in dettaglio i compiti del personale presente all’interno del Patronato.

In particolare, con il citato art. 6 è stato stabilito che gli istituti di patronato e di assistenza sociale, per lo svolgimento delle proprie attività operative:

a) possono ” … avvalersi esclusivamente di lavoratori subordinati dipendenti degli istituti stessi o dipendenti delle organizzazioni promotrici, se comandati presso gli istituti stessi …” (comma 1);

b) è comunque ammessa “la possibilità di avvalersi, occasionalmente, di collaboratori che operino in modo volontario e gratuito esclusivamente per lo svolgimento dei compiti di informazione, di istruzione delle pratiche, nonché di raccolta e consegna delle pratiche agli assistiti e agli operatori o, su indicazione di questi ultimi, ai soggetti erogatori delle prestazioni. In ogni caso, ai collaboratori di cui al presente comma non possono essere attribuiti poteri di rappresentanza degli assistiti. Resta fermo il diritto dei collaboratori al rimborso delle spese autorizzate secondo accordo ed effettivamente sostenute e debitamente documentate, per l’esecuzione dei compiti affidati. Le modalità di svolgimento delle suddette collaborazioni devono risultare da accordo scritto vistato dalla competente Direzione provinciale del lavoro e per l’estero dalle autorità consolari e diplomatiche” (comma 2);

c) esclusivamente per determinate attività “… di cui agli articoli 8 e 10 e per periodi limitati di tempo, in corrispondenza di situazioni di particolare necessità ed urgenza, gli istituti di patronato e di assistenza sociale possono stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa” (art. 6 comma 3).

Per assolvere ai propri compiti istituzionali, quindi, gli istituti di patronato utilizzano i c. d. “operatori di patronato”, i quali ai sensi del citato comma 1 sono “lavoratori subordinati dipendenti degli istituti stessi o dipendenti delle organizzazioni promotrici, se comandati presso gli istituti”; e i c. d. “collaboratori volontari”, i quali operano in forma volontaria e gratuita (si tratta in genere di delegati sindacali di categoria o dei pensionati) e che in virtù del citato comma 2, pur non avendo poteri di rappresentanza, svolgono “compiti di informazione, di istruzione delle pratiche, nonché di raccolta e consegna delle pratiche agli assistiti e agli operatori o, su indicazione di questi ultimi, ai soggetti erogatori delle prestazioni.”; e possono avvalersi altresì di altri soggetti (altri collaboratori) utilizzati esclusivamente per svolgere determinate attività e per limitati periodi di tempo, stipulando contratti di co. co. co. di cui al comma 3 dell’art. 6.

L’attività del patronato viene dunque posta in essere dagli operatori e dai collaboratori volontari, ciascuno in relazione agli ambiti rispettivi assegnati loro dalla legge. I collaboratori volontari, pur non avendo potere di rappresentanza dell’assistito (anche se, come gli appellati non mancano di osservare, il modello di mandato rilasciato dall’assistito, oltre a contenere uno spazio per inserire i dati dell’operatore di patronato, significativamente ne reca anche un altro per indicare anche i dati dell’eventuale collaboratore che ha raccolto e istruito la pratica stessa), in coerenza con quanto previsto dall’art. 6 della l. n. 152 del 2001 informano gli utenti, raccolgono il mandato e la documentazione necessaria al fine di istruire le pratiche e raccolgono e consegnano le pratiche agli assistiti e agli operatori o, su indicazione di questi ultimi, ai soggetti erogatori delle prestazioni. Gli operatori, invece, dotati di potere di rappresentanza dell’assistito, analizzano, valutano, rielaborano, sottoscrivono e dispongono l’invio agli enti previdenziali delle pratiche raccolte e istruite, anche dai collaboratori. Gli operatori costituiscono quindi la “figura professionale” dell’ente di patronato e assumono la responsabilità “finale”, verso l’esterno, dell’attività compiuta.

Va poi soggiunto che l’art. 17 della l. n. 152 del 2001 –divieti e sanzioni, prevede che “è fatto divieto agli istituti di patronato e di assistenza sociale di avvalersi, per lo svolgimento delle proprie attività, di soggetti diversi dagli operatori di cui all’articolo 6. La violazione del suddetto divieto comporta, per la sede in cui si è verificata detta violazione, la decadenza dal diritto ai contributi finanziari di cui all’articolo 13, per le attività svolte dalla sede in cui si è verificata la infrazione”.

Ciò posto, alla luce della normativa di riferimento innanzi riportata il Collegio osserva anzitutto che, diversamente da quanto ritiene l’appellante, e in modo conforme a ciò che si è statuito in sentenza di prime cure, nel consentire ai collaboratori volontari l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali non si viene a determinare alcuna parificazione o commistione di ruoli tra operatori di patronato e collaboratori volontari.

Come correttamente rilevato in sentenza, al p. 3.1., la separazione tra le due figure e la distinzione di compiti tra operatore di patronato e collaboratore volontario, ribadita sopra e bene delineata dal Tar, persiste.

La distinzione anzidetta non sbiadisce ove si consenta al collaboratore volontario di accedere munito di password alle banche dati degli enti previdenziali.

La responsabilità “finale”, ed esterna, dell’operatore di patronato, rimane ferma (v. sent. , punti 3.1. e 3.2.).

E’ poi esatto (v. sent. , p. 3.2.) che i compiti di “istruzione delle pratiche” ex art. 6, comma 2, cit. implicano, per loro stessa natura, l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali.

Negare ai collaboratori volontari l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali vorrebbe dire impedire in concreto, ai collaboratori medesimi, di espletare gran parte dei compiti attribuiti loro dalla disposizione di riferimento e in particolare di istruire e consegnare le pratiche e ciò in un contesto anche di “alleviamento”, specie nei riguardi di alcuni segmenti di utenza, dei disagi legati al c. d. “digital divide” (divario digitale).

In maniera condivisibile quindi la sentenza appellata, al p. 3.4. , ha affermato che “attualizzando e traducendo il testo della l. n. 152 del 2001 nell’ambito della digitalizzazione della P. A. l’accesso alle banche dati da parte dei collaboratori risulta non solo facoltativo ma anche necessitato” allo scopo di rendere possibile la collaborazione istruttoria con gli operatori. E bene gli appellati sottolineano che il divieto di accesso alle banche dati si sostanzia in una illegittima limitazione dei compiti del collaboratore volontario il quale, privato della facoltà di accesso anzidetta, non potrà compiere l’istruttoria necessaria ai fini della predisposizione delle pratiche oggetto dell’attività del patronato.

Del resto, l’avvalimento di collaboratori volontari e gratuiti per lo svolgimento dei compiti indicati all’art. 6 della l. n. 152 del 2001 nel quadro attuale di digitalizzazione e di telematizzazione dei procedimenti nel settore in questione si pone negli stessi termini ed entro il medesimo perimetro che caratterizza(va) l’attività di collaborazione volontaria nella precedente disciplina, contraddistinta dalla “gestione cartacea”, per così dire, dei procedimenti stessi.

Le nuove modalità di conservazione e di gestione digitalizzata dei dati non possono essere di ostacolo a uno svolgimento effettivo ed efficace dei compiti propri del collaboratore volontario: diversamente opinando, risulterebbe illegittimamente “danneggiato” il servizio stesso –si noti, di “pubblica utilità” (cfr. art. 1 della l. n. 152 del 2001)- dell’ente di patronato.

Risulta improprio, quindi, ipotizzare una parificazione sostanziale tra le due figure.

La previsione di accesso alle banche dati non comporta alcun pericolo di commistione di ruoli tra operatore di patronato e collaboratore volontario. L’ “interezza” dell’assunzione di responsabilità in capo all’operatore non viene in alcun modo scalfita dalla previsione della possibilità, per i collaboratori volontari, di accedere ai sistemi informatici di INPS e INPDAP, appunto perché l’accesso di per sé non implica poteri di rappresentanza del patronato: rappresentanza e responsabilità permangono in capo all’operatore, il quale “valida” la pratica istruita dal collaboratore volontario.

La sopravvenuta normativa sulla digitalizzazione non ha abrogato l’art. 6 della l. n. 152 del 2001 e quindi l’attività di “istruzione delle pratiche” deve essere consentita anche con i nuovi sistemi e strumenti.

Inoltre, il divieto di cui all’art. 17 della l. n. 152 del 2001 va armonizzato con la disposizione di cui al citato art. 6 della stessa legge che, come detto, ammette la possibilità di avvalersi in via occasionale di collaboratori che operino in modo volontario e gratuito.

Il fatto poi che l’art. 6, comma 2, della l. n. 152 del 2001, nel fare riferimento all’attività dei collaboratori operanti in modo volontario e gratuito, usi l’avverbio “occasionalmente”, non può sovvertire l’esito della controversia dato che si tratta di un profilo che attiene alle modalità di organizzazione interna dell’attività degli istituti di patronato e non incide sulle modalità di esecuzione dell’attività da parte dei collaboratori. Come specificato poc’anzi, stando alla disciplina di cui alla l. n. 152 del 2001 assume comunque rilievo preminente la responsabilità “finale”, ed esterna, dell’operatore professionale.

Né, infine, possono porsi problemi ostativi di “compatibilità con la normativa sulla tutela della riservatezza dei dati personali”, avuto riguardo alla responsabilità, per la condotta (anche) dei collaboratori volontari, in capo all’istituto di patronato, il quale ben potrà, ove del caso, predisporre strumenti di conservazione e di tutela della riservatezza dei dati; al fatto che il collaboratore volontario a quanto consta può visionare solo la pratica che ha in lavorazione e non altre pratiche; e alla circostanza che l’assistito è invitato a sottoscrivere la dichiarazione di consenso ex d. lgs. n. 196 del 2003.

Senza tralasciare di considerare, come giustamente segnala il Tar al p. 4.1. , che ogni uso improprio delle banche dati verrà sanzionato dall’ente di patronato e dagli organi ministeriali di vigilanza e controllo sull’operato degli istituti di patronato.

Per le ragioni esposte sopra l’appello va respinto e, per l’effetto, la sentenza impugnata va confermata, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato in primo grado nella parte in cui non si consente al collaboratore volontario di accedere alle banche dati degli enti previdenziali.

La novità della questione trattata giustifica tuttavia la compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente decidendo sull’appello in epigrafe (n. R. G. 683 del 2016) lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.

Spese del secondo grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21 aprile 2016 con l’intervento dei magistrati:

Luciano Barra Caracciolo, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere, Estensore

Francesco Mele, Consigliere

     
     
L’ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

Il Segretario

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 23/06/2016

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione